Tristia

No. Non è vero. Non è vero che il tempo guarisce tutte le ferite. Qualcosa d’inconsolabile perdura. Non è necessario aver vissuto dei drammi terribili. Nessuno può giudicare la sofferenza dell’altro, qualunque essa sia. Semplicemente accoglierla, così com’è. Alcune ferite non smettono di fare male, ancora e ancora. Non è né uno stato psicologico, né un destino esistenziale, ma una condizione nostra: siamo vulnerabili. Eppure, siamo addestrati a disciplinare il dolore, a riprogrammarci in ogni genere di progetto, a sopravvivere all’insopportabile, perfino a infliggere agli altri ogni sorta di ingiuria. Tristia. Stati di usuale sconforto esprimono una voce femminile, dall’adolescenza alla vecchiaia, colta nei rari momenti in cui il dolore si fa scabra e lucida percezione dei guasti irreparabili, arrecati all’anima e al corpo. È uno sguardo che prende tutta la misura del danno: solamente una parola poetica, e non un’esperienza vissuta, può rappresentarla, uscendone indenne. Resta una forma di “compassione” per sé e per gli altri, che né avvilisce, né consola, ma scioglie con pazienza i nodi più dolorosi.