Tempeste

Pochi mesi prima di morire (1984), Eduardo De Filippo completava il suo ultimo capolavoro: la traduzione in napoletano della Tempesta di Shakespeare. Non si trattava, infatti, di una versione pura e semplice, ma di una suggestiva e complessa riflessione su tutto ciò che di bene e di male si connette alla natura umana. Anche in lui, come nel grande drammaturgo elisabettiano, l’isola-mondo su cui Prospero, Miranda, Ferdinando, Ariele, Calibano e gli altri personaggi mettono a nudo i loro più riposti sentimenti, diviene uno spazio purgatoriale su cui soffia il vento consolatore della tolleranza e del perdono. Ad esprimere tanta ricchezza di contenuti, Shakespeare aveva fatto uso di un verso sontuoso, ricco di metafore ardite e di sonorità inedite. Eduardo sceglie, per dirlo con le sue parole, «un napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi». Scelta felicissima, perché gli consente, quando lo ritiene necessario, sagaci contaminazioni col parlato dei secoli più prossimi a noi e coi riti e miti e leggende di Napoli. Antico e moderno, insomma, fusi insieme: il linguaggio delle corti accanto a quello delle bettole, il gergo marinaro accanto a quello camorristico, le suggestioni della Cantata dei Pastori accanto alle sonorità ammaliatrici della canzone d’autore. Di questa impresa davvero prodigiosa nessuno aveva saputo finora dar conto a pieno. Angela Leonardi, giovane studiosa dell’Università fridericiana di Napoli, ne ripercorre ora con puntiglio la storia, prima ricostruendo il clima storico e culturale in cui agirono entrambi gli autori, quindi istituendo fra le due opere un dialogo che ce le restituisce in tutti i loro contorni. Ci consente di entrare, insomma, in una sorta di laboratorio ideale, in cui due autentici geni lavorano – a nostro beneficio – l’uno di fronte all’altro.