I briganti

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Il brigantaggio, quale fenomeno sociale, politico e criminale, viene esaminato per la prima volta oltre che nel dipanarsi di quel lungo periodo storico nel quale è sorto ed è proliferato, anche nell’arte, nella letteratura e nell’immaginario, aprendo così una “finestra” su un mondo di emarginazione, di povertà, di prevaricazioni e, spesso e volentieri, soprattutto di iniquità dei governi, a cominciare da quello pontificio, di cui la storia, perlomeno quella che si rifà ai grandi eventi e ai loro protagonisti, non sempre ha lasciato adeguata memoria. L’umile esistenza di quei popolani che per loro, o ancora più spesso altrui scelta, erano stati costretti a prendere la via della “macchia” abbandonando casa, beni, affetti, rivive come d’incanto nelle opere di quei numerosi pittori che li hanno “immortalati” in oli, acquerelli e soprattutto incisioni, quadri che riescono così non tanto e non solo a restituirci, quasi in un flash-back dell’anima, quel loro mondo di sofferenze ed efferatezze, quanto ad aprire una “breccia” nella nostra coscienza. L’aspetto letterario, quasi didascalia di un filmato a cui manca il sonoro, è l’elemento specifico di queste incisioni in cui ogni dettaglio della stampa, ogni gesto e ogni espressione dei personaggi ha come fine ultimo quello di illustrare un episodio e i titoli di tali acqueforti tradiscono proprio un “linguaggio” più letterario che pittorico, quasi calligrafico. Un’arte che nasce, più che dall’intuizione, proprio e solo dall’intelletto, una “pittura di idee” che ha come “consumatori” immediati i borghesi di quella nuova classe emer- gente intellettualmente cresciuta troppo in fretta e che, di conseguenza, si accostava all’arte con occhi non ancora abituati a comprenderla, ma si sentiva paga e soddisfatta nella mera “lettura” del soggetto così come avrebbe fatto con un romanzo o un racconto. Ci troviamo di fronte, pertanto, all’equivalente pittorico di quell’analisi della società dell’epoca che contemporaneamente e parallelamente veniva condotta dai romanzieri, dai drammaturghi e dagli stessi musicisti, che sceglievano per i “lettori” gli argomenti e i soggetti che questi si aspettavano e tutto sommato si meritavano. È così che episodi di brigantaggio, resi con una grafia e un senso del chiaroscuro non comuni, finiscono per tramutarsi in fatti epici che parlano di sé e vanno a ruba, per un “luigi”, soprattutto come souvenir per gli stranieri attirati dal Bel Paese, dai suoi usi, costumi, abitanti e – perché no? – dai suoi pittoreschi briganti. Il brigantaggio come scelta di vita, infatti, più che a spinte ideologiche, in più di una occasione era conseguente al ben più grave problema della sopravvivenza che vedeva proprio in quella “vita scellerata” l’unica via d’uscita o di salvezza. Insofferenza di servitù, sfiducia nelle leggi umane, desiderio di vendetta e di rivalsa verso l’egoismo della classe dominante, uniti da una aspirazione atavica verso una giustizia terrena e uno sconfinato bisogno di libertà, erano quindi le molteplici motivazioni che spingevano gli abitanti di certe regioni a darsi alla “macchia”. Ne derivava che, come scrisse Stendhal ne La Badessa di Castro, «in fondo, il cuore dei popoli era dalla loro parte ed ecco quindi sorgere spontanea l’omertà, la connivenza, la protezione, la disponibilità»; ciò perché, è ancora un giudizio del celebre autore de La Certosa di Parma, anche se in questo caso quale console francese nella pontificia Civitavecchia, nel 1824 «non era infrequente il caso che i briganti punissero con le loro imprese le angherie dei governatori di piccole città e se non riuscivano a punire questi piccoli governatori tirannici, almeno s’infischiavano di loro e li sfidavano; e questo non è poco agli occhi di un popolo intelligente come l’italiano». Nell’organizzare il nuovo Stato prevalse l’idea di estendere a tutta l’Italia la legislazione piemontese affidata a una burocrazia in gran parte formata da funzionari del vecchio Regno sa- baudo. Ciò comportò una maggiore pressione fiscale mal accettata dai contadini meridionali abituati al paternalismo dei Borbone; la coscrizione obbligatoria con la rigida disciplina militare, che andava a sottrarre braccia al lavoro dei campi, fu causa di un numero sempre mag- giore di disertori; la difficile situazione economica dell’Italia che, rispetto al progresso industriale delle altre nazioni europee, poteva contare solo su alcune industrie, per lo più tessili, solo in Piemonte e in Lombardia mentre nel resto del Regno l’agricoltura restava l’attività principale e persisteva la grave piaga sociale dell’analfabetismo. Questi e infiniti altri problemi conseguenti all’unificazione fecero sì che il malcontento popolare e una motivata sfiducia nel nuovo stato di cose, dessero vita nel Mezzogiorno, tra il 1861 e il 1865, a una nuova ondata di brigantaggio che così giustificò Cesare Cantù con una considerazione profonda quanto impietosa: «Tutto si montò sopra diversa scala; si volle foggiare l’ardente Napoli sulla fredda Torino». Quando, però, il nuovo Stato riuscì definitivamente a debellare il brigantaggio, le cause di questo non solo non erano state eliminate, ma non erano state neanche individuate, e tantomeno erano stati predisposti rimedi per rimuoverle all’origine: la repressione era stata più facile, e senz’altro più economica, oltre che più sbrigativa, della prevenzione. Come sempre, i misfatti e le atrocità di chi ha perso vengono scoperti e denunciati mentre quelli di chi ha vinto non solo sono minimizzati se non addirittura cancellati con un colpo di spugna ma, e questo è ancora più grave, a volte assumono un valore positivo, diventano storia e quindi sono consacrati per i posteri. Secondo Nitti, sensibile come sempre, al “cafone” non rimaneva che questa alternativa: «O emigrante o brigante»; ma spesso, ha precisato con quella acutezza tutta sua Indro Montanelli, diventava insieme «l’una cosa e l’altra: il gangsterismo italo-americano lo dimostra».

Informazioni aggiuntive
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Titolo I briganti
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Autore Renato Mammucari
ISBN 9788868641757
Editore LuoghInteriori
Pagine/durata 208
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